di Orhan Pamuk, Einaudi
Un libro oscuro e disordinato, imperniato sulle riflessioni di un protagonista che vaga smarrito in una Istanbul caotica e viva, vero nucleo narrante e unico filo conduttore di una vicenda che fa solo da blando collante per riflessioni psicologiche sull'essere se stessi. L'ambientazione in una città simbolo del passaggio tra Oriente e Occidente, in un periodo storico di forte movimento sociale (gli anni '60/'70), rendono ancora più difficile seguire il Nobel turco in questa Odissea cittadina estremamente confusa.Tutta Istanbul viene prima o poi tracciata e battuta da Galip, giovane avvocato alla ricerca della moglie-cugina che lo ha abbandonato con un breve messaggio di sole diciannove parole, scritto con una biro verde. Biro verde che è anche la nota distintiva del fratellastro di lei, un noto editorialista di costume che risulta scomparso lo stesso giorno. Proprio rileggendo gli articoli scritti dal cognato-cugino e rivoltando la città come un calzino, Galip spera di ritrovare la moglie, man mano riflettendo con una serie di circonvoluzioni eterogenee: sull'Io, sul desiderio di farsi apprezzare dagli altri, sul desiderio di essere diversi da quello che lo specchio ci rimanda. Nei vari personaggi che incontra, sui loro volti, il protagonista tenta di leggere una qualche traccia che gli permetta di ritrovare i due scomparsi, ma finisce per rigenerare soprattutto se stesso, attraverso lo sguardo proprio, degli altri, e della città dei due mondi. Complesso e non di facile lettura, fa attendere a lungo un epilogo che sembra non arrivare mai.
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