di Michela Murgia, Einaudi
Chiamata a spegnere la vita di moribondi che la pietà dei parenti non vuole più veder soffrire, l'accabadora dispensa l'al di là anche a quanti, menomati fisicamente e psicologicamente, chiedono di farla finita. Pura e semplice eutanasia? E lei, anima pietosa o assassina? Secondo molti antropologi la figura dell'accabadora è solo il prodotto dell'immaginario popolare di alcune zone della Sardegna, mentre per altri, per i molti affezionati alla tradizione, l'accabadora era una persona vera, la morte in carne e ossa.Si incontra la morte vis a vis in questo romanzo di Michela Murgia. Una morte che ha le sembianze dell'accabadora, figura che appartiene al mondo delle tradizioni popolari dell'entroterra sardo e di cui si è sempre molto parlato in quanto dispensatrice di morte. L'accabadora è infatti colei che pratica una forma ancestrale di eutanasia, un personaggio inquietante e misterioso che si autorizza ad uccidere. Intelligentemente l'autrice non spinge la storia in direzioni "alla Stephen King", ma rimane ancorata alla realtà della Sardegna degli anni '50. Dunque l'accabadora che si incontra nel romanzo ha un nome e cognome, Tzia Bonaria Urrai, veste di nero un po' per vezzo e un po' per ricordare un'antica vedovanza, abita in una grande casa insieme a Maria, figlia adottiva, e di mestiere fa la sarta. La morte che si nasconde nelle pieghe della normalità.
Scritto con garbo e relativa semplicità, senza forzature retoriche o inutili abbellimenti linguistici, il romanzo scorre seguendo la storia di Maria e creando nel lettore curiosità per i vari personaggi, lontani rispetto alla realtà di oggi e vicini a noi nella loro umanità.